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Violenza nei legami d’amore. Una trappola per molte donne

Cultura

Scritto da il 25 Novembre 2013 - 14:27

1522-numero-anti-violenzaNella maggior parte dei casi di violenza maschile sulle donne, l’uccisione della donna rappresenta l’ultimo stadio di una vita a due, tormentata, caratterizzata da uno sbilanciamento di potere, dalla prevaricazione di un soggetto sull’altro.

Lavorando nei centri e negli sportelli antiviolenza ed andando a ricostruire la criminogenesi e la criminodinamica di questi fatti criminosi, si colgono molte analogie tra le numerose donne che chiedono aiuto, supporto ed assistenza. Tutte raccontano di relazioni in cui l’amore, il rispetto, la condivisione non esistono, ma prendono il posto le vessazioni fisiche, psicologiche, economiche e sessuali. Il rapporto di coppia è pervaso dalla possessione e dal controllo dell’uomo sulla donna, dall’isolamento – indotto dall’uomo – della donna dal mondo esterno, sia dal contesto familiare che dall’ambiente lavorativo. Forse l’amore non c’è mai stato, ma sempre presenti troviamo le liti furibonde, molto spesso per dei futili motivi, forti contrasti, minacce subdole che conducono la donna a cadere in una sorta di “trappola psicologica” che non le permette di uscire, con facilità, da questa condizione di subordinazione e violenza.

La gente comune quando si parla di maltrattamenti e violenza di genere è solita affermare: “Ma perché la donna non lo lascia? Perché rimane con lui?”. A ciò si aggiunge uno stereotipo che la nostra società dovrebbe cercare di eliminare quanto prima: “Alle donne che subiscono violenza domestica va bene essere picchiate, altrimenti se ne andrebbero di casa”.
violenza-coppiaMa è proprio questo il punto, non è semplice interrompere una relazione in cui si è creduto fortemente, e da cui, molto probabilmente sono nati dei figli, che rappresentano un legame indissolubile tra due persone, per la vita intera.

Paura per la propria incolumità, dipendenza economica, assenza di una rete a cui fare riferimento, mancanza di un alloggio, riprovazione sociale (spesso proprio da parte della stessa famiglia di origine), autobiasimo, senso di colpa, speranza di salvare la propria unione e tentativi di cambiamento promessi dal partner sono alcuni dei fattori che si riscontrano lavorando con e per le donne e che rendono difficile per le donne stesse chiudere il rapporto con l’uomo violento.

Come ci spiega Lenore Walker, psicologa statunitense, l’escalation violenta passa attraverso quella che lei ha definito “la spirale della violenza” o “ciclo della violenza”, una teoria criminologica secondo cui si viene a sviluppare un circolo vizioso nel corso del tempo e in maniera graduale, che fa sì che l’uomo parta dapprima con violenze verbali o atteggiamenti svalorizzanti, aggressivi, ostili, non pienamente visibili, ma “nascosti”, poi in una seconda fase mette in atto maltrattamenti e attacchi evidenti, in cui la sottomissione sembra l’unica soluzione e possibilità per sopravvivere per la donna, fino ad arrivare alla fase della cosiddetta “luna di miele”, in cui l’uomo si mostra pentito per quanto commesso e riserva attenzioni amorose tipiche del corteggiamento iniziale e promette di non farlo più. Tutto questo non fa altro che mettere in difficoltà la donna ed alimentare la sua confusione, lei si sente sopraffatta da un insieme di sentimenti contrastanti che le rendono ancora più arduo vedere la realtà per quella che veramente è. Infatti, basterà un qualsiasi evento per far sì che l’uomo riprenda a maltrattare e il ciclo della violenza ricominci dall’inizio. Molto spesso i figli assistono alle violenze e tutto questo avrà delle ricadute non indifferenti, anzi molto pericolose, anche nei loro futuri rapporti amorosi.

Ma cosa c’è di così gratificante nel sottomettere la propria partner? Nello schernirla? Non è più stimolante avere un confronto alla pari con lei, ascoltarsi, raccontare le proprie paure, le proprie insicurezze e condividere un progetto comune, fatto di rispetto, di stima e di affetto reciproco?

In questa fase di trasformazione della società, si è in parte perduta l’arte di amare. Si percepisce chiaramente una sorta di incompetenza affettiva, di fragilità, una generale incapacità di gestire i piaceri, gli affetti e gli abbandoni.

Molto spesso, all’incapacità di vivere l’amore corrisponde poi la difficoltà di accettarne la fine, che portata all’estremo, conduce al femminicidio, alla strage di donne che vengono uccise, come i loro assassini dicono, “per amore”. Ma se davvero avessero saputo cosa fosse l’amore, tutto questo non sarebbe successo. L’amore è, in effetti, la parola più incompresa del nostro tempo.

Come afferma Remo Bodei, professore di filosofia presso la University of California a Los Angeles, “l’amore è una delle esperienze più piene ed appaganti nell’esistenza di ciascuno, rappresenta un’energia di radicale rinnovamento, un nuovo inizio, quasi una rinascita. Si gode dell’esaltazione che produce, dell’inafferrabile, luminosa espansione della vita, un allargamento dell’io che sente di non bastare più a se stesso e trova il proprio completamento nell’altro. Si avverte allora la sensazione di innalzarsi al di sopra della banalità della vita quotidiana e di essere strappati alla solitudine dell’io. È felicità e tormento che risveglia il desiderio di ignoto, assieme al dubbio di non essere corrisposti e al connesso timore di perdere ciò a cui oscuramente si è sempre aspirato. È una riscoperta di noi stessi in vesti altrui, l’incontro con quel nucleo di noi stessi, da cui viviamo spesso lontani, assorbiti dall’esteriorità e dalla dissipazione delle nostre energie”.

Quando tutti capiremo cosa significhi davvero amare, quanto sia importante la propria dignità e quanto sia necessario avere una buona stima di sé e delle proprie capacità, quando comprenderemo quanto è fondamentale la libertà dell’altro, solo allora potremo essere pronti per una “rieducazione sentimentale” e per un’educazione alla relazione con l’altro, al rispetto di chi ci sta vicino e al valore della vita.

Scritto in occasione della Giornata Mondiale Contro la Violenza sulle Donne dalla
dott.ssa Nicoletta Calizia, Sociologa e Criminologa

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